A distanza di 23 anni dalla prima messa in onda in Italia dell’anime, nei cinema italiani arriva “The First Slam Dunk“, il lungometraggio che promette ai fan il finale che, quei 101 episodi (più uno riassuntivo), non ci hanno dato.
Con un po’ di amarezza entriamo nel cinema, perché questo finale ce lo saremmo meritato con la più sconclusionata direzione di doppiaggio che fece una magia unica a inizio anni 2000. Chi non l’ha vissuta in tempi non sospetti, non può capire la demenzialità e irriverenza che era stata profusa nella trasposizione. Senza sminuire il lavoro fatto oggi, quell’anarchia che si presero con la rete televisiva ci ha permesso in adolescenza di godere di uno degli anime meglio adattati che si abbia memoria. Oggi non farebbero scalpore certe battute ma, nei tempi d’oro della censura estrema negli anime, erano quasi troppo anche per l’Anime Night.
La sala si riempie e fa piacere vedere che non ci siamo solo noi “vecchi” cresciuti con l’anime trasmesso su MTV. Un poco ci rincuora: ci sentiamo ormai anziani, tanto da iniziare a pensare che i giovani non leggano/vedano i classici del genere. E invece ci sono in sala anche due ragazzini accompagnati dal padre. Sorridiamo e capiamo che storie belle come queste sopravvivranno anche alla nostra generazione perché, Takehiko Inoue, ha creato qualcosa che non invecchia.
Non volendo fare paragoni tra le versioni in lingua, optiamo per quella OV con sottotitoli. Non ce ne vogliano doppiatori e casa di produzione, ma il doppiaggio storico è per noi un gioiello imparagonabile con qualsivoglia altro lavoro. Scegliere questa opzione è stato interessante. E’ stata la prima occasione di ascoltare i dialoghi in lingua madre (quella goliardia italiana un po’ manca nonostante le scene umoristiche che si auto esplicavano), eppure il tono “serio” delle voci ben si abbinava a questo Slam Dunk che, più che “First”, chiude degnamente la saga. Un doveroso ringraziamento va anche ad Anime Factory per la golosa iniziativa delle cinque cards da collezione, un piccolo gesto che per i fan è invece un piacevole e prezioso ricordo da incorniciare o collezionare.
Evitando quanto possibile di fare spoiler, se ancora non avete letto tutto il manga, beh recuperate e poi tornate a leggere, altrimenti è una vostra scelta: siete avvisati.
Il tempo è passato per tutti e anche questo film lo fa capire. Sin dalle prime scene, e dalla scelta di investire sulla back story (che non compare nel manga o nella serie animata) di Ryota Miyagi, fa capire che la trama sarà molto meno spensierata di quelle che abbiamo visto e letto. Si parte lontano dal liceo dello Shohoku, da Hokinawa, l’isola che da anche i natali al maestro di Karate più famoso di Hollywood (se non cogliete la citazione, noi siamo vecchi, ma voi dovete assolutamente recuperare un po’ di film). Il film ci da modo di conoscere bene da dove arrivano l’amore e i suoi conflitti legati al basket, per poi portarci proprio alle ultime pagine del manga: campionato nazionale interscolastico ormai iniziato. Lo Shohoku dovrà scontrarsi con il Sannoh!
L’ultima partita, quella decisiva che noi fan aspettavamo … o che forse avevamo timore di vedere visto il finale dolce amaro proposto nel manga. La scelta di spostare i riflettori su Ryota, lasciando il resto della squadra in secondo piano, non è affatto una scelta semplice. Da apprezzare che abbiano sfruttato nella narrazione tutto ciò che era canonico, armonizzando la narrazione, tanto che ogni singolo evento si incastra alla perfezione senza creare fastidiosi retcon. A tutto questo si aggiunge una regia superlativa. Sfruttando sapientemente le inquadrature con il mix di 2D e CGI, ci si ritrova in campo a voler tifare come se fossimo su quelle tribune accorate. Il sapiente uso della soundtrack galvanizza lo spettatore che si trova a trattenere il fiato quando i silenzi diventano parte delle scene.
Ed è proprio il Silenzio l’arma migliore del regista, quella che da profondità a questo lungometraggio. Quei lunghi momenti di sguardi, parole abbozzate sulle labbra, ma assolutamente nessun suono. Quel nulla che spacca il ritmo, ferma tutto per alcuni secondi, che dice e non dice, che di colpo si trasforma nel rombo di una palla che da via ad un’azione sportiva dal risultato incerto. Quella quiete in cui tu crogioli i tuoi pensieri e dai la tua interpretazione ad un discorso che non esiste, o ad un pensiero inespresso guardando solo gli occhi del “tuo compagno di squadra”.
Non mancano però i soliti siparietti comico demenziali. Hanamichi non ha perso il vizio di importunare il viso del povero Mitsuyoshi Anzai, così come la conflittualità con Rukawa rimane immutata e fonte di divertimento, fino alle chicche che richiamano la storia originale cara alla vecchia guardia. Eppure rimane sempre costante un sottile velo di conflittualità e dolore difficile da scrollarsi di dosso anche nelle scene più esilaranti.
Un Slam Dunk che è cresciuto, ha imparato a non sfruttare sempre e solo Rukawa e Hanamichi. Un film che ci da un finale aperto senza (per fortuna) farci piangere calde e maledette lacrime come nel manga. Una visione che ci insegna quanto i classici (anche nei manga) siano importanti e soprattutto apprezzabilissimi, perché non invecchiano. Infine una storia che mette la parola ‘fine’ a un capitolo da troppo tempo rimasto aperto. Lo fa nel modo più semplice: con un film che vale il prezzo del biglietto e che andrebbe rivisto, non una, ma ancora un paio di volte (chissà, magari una doppiata in italiano per curiosità). Altro non fosse per godersi appieno ciò che aspettavamo da oltre un ventennio: il primo ed unico LOW FIVE tra i due eterni rivali!
in collaborazione con Alice Chimera