Mercoledì 30 ottobre ero all’Auditorium San Girolamo per assistere all’incontro intitolato “Andrzej Sapkowski racconta The Witcher”. Avevo già incrociato il passo con l’Autore della saga dello Strigo Geralt di Rivia nel 2015, anno di uscita dell’ultimo capitolo del videogioco tratto dai suoi romanzi. In quell’occasione tutto era in scala ridotta rispetto a quest’anno, la spinta mediatica del lancio della serie Netflix è imponente (e infatti approfondirò tutti gli eventi collaterali in un prossimo articolo).
Ma qui vorrei concentrarmi su “Sapko”, e il suo carattere tutt’altro che comune.
Entrando nell’Auditorium si notava un manipolo di persone a metà sala. Tra loro c’era appunto Andrzej Sapkowski, che sonnecchiava seduto su una poltroncina. Quando si è riscosso dalla sua meditazione ha spedito uno dei suoi collaboratori a cercargli qualcosa da bere, e rivolgendosi nella mia direzione mi ha chiesto di sedergli accanto. Che fai, esiti? Mi sono subito accomodata, piena di emozione (e di dubbi sul tipo di dialogo che poteva saltar fuori dall’interazione tra l’inglese di un polacco e quello di un’italiana).
Ho rotto il ghiaccio con un classicone: “Come va?”
La sua risposta mi ha lasciato di stucco: “Eh, mio figlio è morto.”
Bum! Il gelo mi ha congelato in faccia l’espressione. Mi sono detta che forse avevo capito male, ma era impossibile fraintendere parole così ben scandite. Alzando lo sguardo verso i suoi collaboratori ho visto il mio stesso sbalordimento.
“Non sapevo. Mi dispiace tantissimo. Quand’è accaduto?”
“Lo scorso giugno. Lo so, non ne parla mai nessuno. È la cosa più innaturale che si possa provare, essere un genitore che sopravvive al proprio figlio.” Lo sguardo di Sapko era lucido, la fronte aggrottata, le labbra contratte. Non avrei mai potuto immaginare che la conversazione prendesse questa piega. La sola cosa che sembrava avere un senso era condividere con lui qualcosa che fosse altrettanto intimo. “Posso capire. È accaduto anche ai miei genitori, io ero una bambina di appena due anni ma mia sorella, di quindici, è morta all’improvviso. Io non ho ricordi di quel tempo, ero troppo piccola. Ma hai ragione, non c’è niente di più doloroso e innaturale. La mia famiglia non è più stata la stessa.”
Nel parlare mi ero voltata verso di lui, e lui si era accorto che mentre parlavo il mio sguardo vagava sulle nostre mani, vicine. Le ha alzate verso il mio viso: “Vedi queste mani? Sono storte, ferite.” Effettivamente, strane ombre le segnavano e alcune dita sembravano un po’ storte. “Sono stati i russi! In Siria, a Damasco.” “Ho letto che sei stato un soldato.” “Un volontario. In Afghanistan, e poi in Siria.”
In quella è ritornato il suo accompagnatore con una bottiglietta d’acqua: “Ecco qua! So che non è quello che speravi, ma purtroppo è quello che sono riuscito a recuperare!” In quella un altro collaboratore ha preso la parola: “È ora di salire sul palco, tra poco entrerà il pubblico.”
Ho ripreso il mio posto a sedere, e in pochi minuti l’auditorium si è riempito.
L’incontro ha preso subito una piega strana, perché alle domande poste dall’intervistatore Sapko non aveva molta voglia di rispondere. “Vorrei che il pubblico si divertisse un po’, quindi fatevi avanti, signore e signori del pubblico! Soprattutto le signore, è chiaro!”
E che, ti fai pregare? Gli ho fatto la domanda che mi gira in testa da quando, dopo aver letto i romanzi, mi sono dedicata al videogioco, accorgendomi di come la sua storia fosse stata rimaneggiata anche molto a fondo.
“Vorrei chiedere al Maestro che cosa si prova quando i personaggi che hai creato vengono ripresi da altri autori, addirittura trasportati in altri media come è capitato a The Witcher, che ne fanno qualcosa di diverso da quello che hai pensato e sentito per loro.”
“Ogni personaggio di cui io ho scritto è sempre stato creato per servire il racconto. Nient’altro. La storia è la regina! La storia deve andare avanti, e i personaggi sono al suo servizio.”
La seconda domanda l’ha fatta il nostro MagicMMX: “È al corrente del fatto che è stato tratto un gioco di ruolo dalla sua saga? E le è mai capitato di giocare di ruolo?”
“No, non lo sapevo [e tutta la sala è scoppiata a ridere, N.d.R.]. Io sono stato il game master molte volte, ma non ho mai giocato. È stato divertente, soprattutto quando l’ho fatto con mio figlio che è morto recentemente.”
La sala si è raggelata. “È così. La vita deve andare avanti.”
Il pubblico ha riempito il silenzio con un breve applauso, poi di nuovo tutti i rumori sono svaniti. “È andata così, e non siamo più a un funerale, vestiti di nero. Pensate, io di solito vesto sempre di nero. Lui è morto e io sono vivo.”
In sala non si sentiva nemmeno un respiro. “Scusatemi, per favore scusatemi. È così, non voglio rattristare nessuno ma lui è morto e non ci si può fare niente. È qualcosa che possiamo gestire, voi potete gestirla, io posso gestirla. Dai, divertiamoci! La vita deve andare avanti! La vita è bella! Dài, chiedetemi qualcos’altro!”
Le domande da parte del pubblico sono riprese, riassumiamo qui le più interessanti.
“Che ruolo ha avuto nella creazione della serie Netflix?”
“È una buona domanda, tutti me la fanno. Ma nessuno mi crede quando dico che io quando scrivo vedo solo le lettere. Eppure è vero! Quando mi propongono immagini o video io rimango impressionato da quello che vedo, li trovo bellissimi, ma non li ho mai visti prima. Io vedo solo le lettere.”
“Cosa l’ha ispirata nella creazione dei suoi romanzi, e cosa ha guidato lo studio dietro alle ambientazioni?”
“Soprattutto la carenza di soldi! Sto scherzando, è qualcosa che ti esplode dentro, che non puoi più contenere. Avevo qualcosa da dire. Quando ero un ragazzino ho scritto un sacco di racconti stupidi, che neanche ricordo, ma era già qualcosa. Quando poi è stato lanciato il concorso per la rivista di sci-fi Fantastika [quello a cui ha partecipato con il racconto “Lo Strigo” classificandosi al terzo posto, N.d.R.], ormai più di trent’anni fa, è andata così: ho deciso di scrivere, ed è successo.”
“Qual è il suo racconto preferito tra quelli che ha scritto?”
“Mi stai chiedendo quale tra le mie molte brutte figlie sia la più bella? Non saprei… Proviamo. La Maladie. È il racconto in cui ho “reso” di più. È contenuto nella raccolta ‘La strada senza ritorno’.”
“Perché ha sentito l’esigenza di far tradurre tutti i suoi libri direttamente dal polacco alla lingua di arrivo, senza la mediazione di un’altra lingua come ad esempio l’inglese?”
“Esiste un detto in italiano, dice ‘traduttore/traditore’, e di solito è vero. Raramente mi viene chiesto di esprimere pareri sulle traduzioni, anche se conosco una ventina di lingue, quindi sono nelle mani di un traduttore/traditore!”
“Come fa a trovare delle voci così personali per ciascuno dei suoi personaggi?”
“Non lo so.”
“Ha mai pensato di scrivere un libro sui miti arturiani?”
“L’ho già fatto, verrà pubblicato in polacco. Penso che i miti arturiani siano così universali che praticamente tutti i racconti fantasy trovano lì le proprie radici. Sono impressi nei nostri archetipi.”
“Lei ha scritto la trilogia Hussita, ancora inedita in italiano. È molto ponderosa, quanto lavoro le è costato realizzarla?”
“È stato il mio tour de force, e credo che sia abbastanza bello. Leggila, e non te ne pentirai.”
“Yennefer è il mio personaggio preferito, potrebbe raccontarci qualche aneddoto, quali sono gli elementi che la compongono a livello letterario?”
“Ho creato i personaggi solo per servire la trama. Credetemi. Nient’altro. Fanno andare avanti il racconto.”
“Qual è il suo genere letterario preferito? Fantascienza, gialli…?”
“Leggo ogni tipo di libri. Tantissimi. Alimentano la mia immaginazione. Sono la mia vita. Io vivo con loro.”
“Quali colleghi stima?”
“Domanda difficile. Molti. Umberto Eco. Da quando è morto il mondo non è più lo stesso… E non sarà più lo stesso nemmeno dopo la mia morte! Ovviamente scherzo…”
“Una spada d’argento e una di acciaio. Perché ha scelto questa soluzione per Geralt?”
“Tutti possono scrivere. Ma io lo faccio nel modo giusto! È il talento.”
“Come fa a dare speranza ai suoi personaggi, malgrado tutte le tragedie e i drammi che li affliggono?”
“Si chiama talento. Tutti i miei personaggi servono la trama. Pensate alla storia come a una tenda: il pilastro centrale è l’eroe e i picchetti che la tengono ancorata al suolo sono gli altri personaggi che servono tutta la struttura.”
A chiudere l’incontro sono intervenuti il direttore di Lucca Comics&Games Emanuele Vietina e il sindaco di Lucca Alessandro Tambellini, scortati da un gruppo di cosplayer raffiguranti gli eroi di The Witcher.
L’impressione che mi ha lasciato questa persona è particolare, gioca a fare il “vecchio porco” e probabilmente il ruolo non gli costa molta fatica. Porta anche molti pesi su di sé, a volte li nasconde bevendo più del necessario e qualche volta ha bisogno di parlarne. Le cose che ha gradito di più sono state le domande del pubblico, anche se coincidevano con quelle a cui ha già risposto centinaia di volte, la cerimonia di posa delle mani nel cemento per la Lucca Walk of Fame e i cosplayer, con i quali ha giocato e si è speso in scenette divertenti, terminando con la firma delle lame delle spade. È decisamente consapevole del suo talento, ombroso come un cavallo di razza, e il protocollo gli piace solo finché può capovolgerlo, farlo a pezzi e rimontarlo.
Mi aveva già colpito nel 2015, e in questa seconda occasione ha confermato le aspettative. Dev’essere veramente un incubo lavorarci insieme, ma se riesci a schivare le sue stoccate la scena diventa epica… proprio come in The Witcher.