In una televisione fatta ormai solo più di pseudo personaggi che gridano, piangono e insultano, con opere cinematografiche che hanno bisogno sempre di qualche tema sociale o politico per farsi interessanti davanti a commissioni di grandi esperti per vincere premi di cui a nessuno importa, rivolgo la mia attenzione sulle piattaforme televisive in cui si riesce sempre a scovare qualcosa di interessante.
“Great Pretender” è un anime, in due stagioni con probabile terza, trasmessa su Netflix e prodotta da Wit Studio con regia di Hiro Kaburagi. Una storia dinamica, frizzante con colpi di scena che si susseguono, lasciando lo spettatore incollato allo schermo, intento a vedersi gli episodi in un colpo unico.
Il giovane giapponese Makoto Edamura è un truffatore che un giorno cerca di raggirare il biondo Laurent Thierry, quest’ultimo è un abile e più esperto truffatore che riesce ad ingannare Makoto… da questo momento il giovane giapponese inizia a collaborare con questo personaggio piuttosto sopra le righe.
Li vedremo, insieme ad altri membri, personaggi legati a Laurent, quali la bella Cynthia Moore, alla mulatta Abigail Jones, truffare a Los Angeles un produttore cinematografico legato al mondo della droga, a Singapore un principe con il vizio delle scommesse e organizzatore di gare truccate di aeroplani, a Londra un battitore di aste senza scrupoli, per poi arrivare nella seconda serie dove avviene la truffa maggiore.
La prima serie, coinvolge immediatamente lo spettatore e le varie truffe perpetrate vengono presentate nei loro minimi particolari, ricordando sotto certi aspetti film come “La Stangata” e “No You See Me – I maghi del crimine”. Il colpo di scena che viene poi sempre spiegato, lascia sempre l’appassionato con la bocca aperta, questo grazie anche al grande carisma del biondo Laurent, la mente del gruppo, dietro il quale c’è tutta una storia.
Se i primi 14 episodi, si basano anche molto sull’aspetto umoristico e divertente, soprattutto sulla credulità e l’inesperienza di Makoto che diventa preda di raggiri degli stessi membri del gruppo, nella seconda serie si perde questo aspetto, diventando troppo drammatico, specialmente nella figura di Edamura e quindi perdendo quell’aspetto energico e portando l’anime ad una narrazione più lenta e contorta.
Un elemento importante è l’internazionalità del titolo, Lupin III insegna, facendo uscire dai confini Nipponici le varie imprese, porta ad avere un ampio movimento d’azione con più soluzioni e più idee da sfruttare ma soprattutto rendendo il titolo, non limitato ad una ristretta cerchia di appassionati.
L’unico aspetto che non mi ha convinto, sono gli eccessivi colori sgargianti fluo che stonavano, i connubi giallo-viola, verde-rosso…. In contesti che non centravano: dalla colorazione dei palazzi, a quelle delle piante e dei fondali stessi, appartenenti alla Black Light art, nata negli Anni 70 e oggi ripresa nella cultura pop.